Piacenza Rugby, coach Toscani: «Italia, popolo di calciatori, ma senza le skill non si va da nessuna parte»

Piacenza Rugby, coach Toscani: «Italia, popolo di calciatori, ma senza le skill non si va da nessuna parte»

A pochi giorni dall’inizio del campionato riserve, che vedrà impegnate le seconde squadre di società di tutto rispetto, come Lyons, Colorno o Pro Recco, abbiamo sentito Davide Toscani, coach della seconda squadra del Piacenza Rugby Club e storica bandiera della società biancorossa.

Coach Toscani, dopo tanti anni di giovanile, ritorni sulla panchina di una squadra seniores. Quali sono le sensazioni?

Sicuramente gli obbiettivi sono diversi. Si ha a che fare con atleti che, sulla carta, hanno già finito la formazione e dovrebbero già saper fare tutto, essere in possesso di determinate strutture e saper giocare la palla con le mani e con i piedi. È una bella sfida.

Dal Gossolengo in C2 al campionato riserve, l’asticella si alza per i tuoi ragazzi. Qual è l’obbiettivo?

Vogliamo fare bene, e questo è ovvio. Il mio obbiettivo, come detto alla società a giugno, è quello di portare quanti più giocatori possibile al livello della serie B. Spero di riuscire a portare almeno una decina di ragazzi alle soglie della prima squadra e poi sarà compito di Sandro Pagani fare le opportune valutazioni. Un altro obbiettivo importante è quello di riuscire a creare un bel gruppo, come quello dello scorso anno. Siamo in un campionato riserve e giochiamo per divertirci, senza prendere soldi e in un bel gruppo è meglio.

Ci sono dei prospetti interessanti, che potrebbero mettersi in mostra tra prima e seconda squadra?

Il mio scopo, come detto prima, è quello di far rientrare quanti più giocatori possibile nel novero della prima squadra. Questo sarà il mio orgoglio, quello di prendere dei giocatori che sono stati esclusi dalla prima selezione e metterli in condizione di giocarsi le proprie carte ad un livello più alto, soprattutto grazie alla stretta collaborazione con il primo allenatore, con cui condividiamo un progetto di gioco comune, oltre agli allenamenti e al confronto costante.

Per concludere, l’undici ottobre si è chiuso il mondiale dell’Italia. Che mondiale è stato? Cosa manca all’Italia per colmare il gap?

Guardare alcune partite di questo mondiale è stata una goduria. Anche se non mi piacciono sul piano tecnico, Georgia e Giappone con la loro grinta e la loro voglia di crescere, hanno dato una bella dimostrazione di impegno. Il problema principale dell’Italia del rugby è che questo è un Paese di calciatori. Ci può essere l’exploit del basket, della pallavolo, a volte del rugby durante il Sei Nazioni, ad esempio ma, anche se sono follemente innamorato di questo sport, non possiamo dire di essere un popolo di rugbisti, perché non c’è mai stato un progetto fatto bene. I migliori allenatori devono essere quelli fino all’under 16. Serve lavorare tantissimo sull’abilità con le mani e con i piedi, lavorare molto sugli skill, senza cercare di creare delle strutture particolari. Altrimenti poi vediamo giocatori di due metri, come Furno contro l’Irlanda, che non riescono a marcare a due metri dalla linea di meta. Non per attaccare il movimento, ma questa è la realtà italiana. Se parli con un neozelandese, e Kelly Rolleston, il nostro Director of Rugby, lo può confermare, ti dirà che i Nuova Zelanda fino ai dieci anni i bambini giocano scalzi e fanno tantissime skill. Poi ci meravigliamo se una seconda linea di 2,05 metri per 125 chili sa fare quindici metri di passaggio. Ma non si nasce campioni, servono ore e ore di allenamento, solo che qui in Italia, quando si superano i due allenamenti a settimana si inizia a storcere il naso e non va bene.

Giuseppe Prontera